Persone

NONNA TINA E LA RESISTENZA

PREA AVREBBE POTUTO SUBIRE LA STESSA FINE DI BOVES

(testimonianza di mio padre Piergiorgio Calcagno)

Per motivi di sicurezza, dopo il bombardamento navale di Genova da parte degli alleati, la mia famiglia era venuta ad abitare a Prea   nella casa natia del nonno materno Basso Giovanni.

Il 25 luglio 1942 era nato a Prea il quarto figlio di mia madre Margherita (Tina) al quale era stato dato il nome di Paolo in onore del fratello (Paulinot dei Giacurun) di mio nonno. La nascita del quarto figlio ha comportato il congedo per mio padre Luigi impegnato sul fronte francese come aiutante maggiore di una unità della Divisione Cosseria, che stava per essere trasferita in Russia. Così mio padre aveva ripreso a lavorare a Genova e veniva a trovarci a Prea ogni due o tre mesi.

Nella borgata dell’alta Valle Ellero, nel settembre del ’43 erano arrivati due ebrei austriaci provenienti dalla Francia. In un primo tempo avevano abitato nella casa dove alloggiava anche il maestro Mondino, poi si erano trasferiti a casa nostra. Avevano documenti falsi e facevano riferimento al parroco di Beinette.

Il più anziano, lo chiamavamo signor Alfredo, oppure monsieur Fred, il più giovane era Ernesto Braun (classe 1924). Io o mio fratello Giancarlo abbiamo accompagnato alcune volte mia madre Basso Margherita (Tina) in Calcagno dal parroco di Beinette. Ricordo perfettamente che nel giardino aveva  una vasca di trote, ghiottissime di “bigàt”. Mia madre si fermava giusto il tempo di avere delle informazioni da portare a Prea  e tornavamo come fossimo andati a fare delle commissioni qualsiasi. Al primo rastrellamento tedesco in vallata Ernesto, con abiti da montanaro, era stato sistemato nella cucina di Basso Paolo, fratello di mio nonno, intento a scegliere delle castagne secche e presentato come sordomuto. Era stato anche inserito sul foglio che riportava i componenti della famiglia, rilasciato dal Comune e affisso sul retro della porta di ingresso. Successivamente, alle prime avvisaglie di pericolo, quando le case e le strade si facevano deserte, Ernesto si aggregava ad altri giovani del paese e si rintanavano al rifugio Margherita, oppure nella zona scoscesa, dove ci sono alcuni spuntoni rocciosi, che si poteva raggiungere attraverso il sentiero dei “cravè”.

A testimoniare la gravità di quel periodo, nella cappella di Sant’Anna era rimasto per tanto tempo dopo la guerra, un ex-voto che raffigurava un gruppo di persone acquattate fra le creste di roccia e parecchi soldati tedeschi che passavano in un sentiero poco distante dal nascondiglio. Anche il giovane “Titin” Giovanni Basso, diventato poi medico a Villanova, era rimasto parecchio tempo rintanato nel campanile della chiesa di Prea. Mia sorella Mariarosa andava a prendere lezioni da lui  per prepararsi da privatista per l’esame di quinta elementare.  Ernesto Braun era entrato a fare parte delle bande partigiane che operavano in Valle Ellero e Val Pesio. Con l’estate ’44 Ernesto era stato trasferito alla base delle stalle del Pino, fra Baracco e il Pian della Turra. Ogni tanto arrivava a casa nostra con il buio passando dai fondi,  anche quando i tedeschi erano acquartierati poche decine di metri più in là. Posava sul tavolo della cucina una bomba a mano multi schegge e la pistola e si fermava giusto il tempo per ascoltare o ritirare la trascrizione delle notizie trasmesse da “radio Londra”. Credo che le sue visite fossero anche dovute alla necessità di portare informazioni a mia madre e a mio nonno, che offrivano il loro pieno sostegno alla causa del movimento partigiano.

Il secondo austriaco Alfredo, quando arrivavano i tedeschi,  rimaneva sempre a casa nostra si infilava a letto fingendo di essere ammalato e rinunciava a  nascondersi. Ad avvalorare le precarie condizioni di salute dell’ospite, mia madre lasciava fuori della stanza di Alfredo  delle lenzuola sporche di sangue di gallina e diceva ai soldati di stare attenti a non essere contagiati perché il vecchio zio era affetto da una grave forma di tubercolosi. Una volta erano entrati ugualmente nella camera ed avevano controllato tutte le etichette dei vestiti per vedere il luogo di provenienza. Ovviamente, la prima precauzione che tutti prendevano era quella di eliminare le etichette dagli indumenti. Infatti, l’accorgimento aveva funzionato e non avevano scoperto nulla, ma Alfredo aveva seguito tutto del parlottare in tedesco dei due. In più, accanto al letto di monsieur Fred c’era un comodino con inginocchiatoio con immagini sacre. Vero è che teneva pure alcune bottiglie di vino nel piccolo armadietto, ma la cosa non disturbava né meravigliava più di tanto i tedeschi.

Il 23 marzo del ’44 ci fu il primo morto civile a Prea. Angelo Basso (29 anni), sordomuto, stava dando il becchime alle galline nell’aia del casolare posto a lato della vecchia strada per la borgata, all’altezza della fonte di San Francesco. Indossava un abbigliamento militare della I Guerra Mondiale come era abitudine piuttosto frequente fra i nostri contadini. Le divise di ruvido panno grigioverde, indossate nelle trincee del Carso e nelle battaglie di Caporetto e del Piave, al termine della Grande Guerra avevano finito per diventare l’abbigliamento abituale nei lavori dei campi. Anche la classica mantellina era stata usata per tanto tempo dai nostri malgari all’alpeggio, per difendersi dalla pioggia e coprirsi di notte nei casolari improvvisati, costruiti con le pietre del luogo, accanto ai “gias” delle mandrie. I tedeschi avevano visto questo abbigliamento che poteva assomigliare vagamente ad una divisa, ed avevano intimato l’alt. Angelo, spaventato, aveva reagito in maniera istintiva, cercando di scappare. Fatto sta che erano partite alcune raffiche di proiettili che non avevano lasciato scampo allo sfortunato contadino ed avevano fatto pure strage di pennuti. Ovviamente, quell’inatteso bottino non era stato lasciato ai legittimi proprietari e, così, quattro ufficiali si erano presentati a casa nostra con la “materia prima”necessaria  per la preparazione del pranzo. Mia madre, mentre armeggiava ai fornelli coadiuvata da nonna Rosetta e da una cugina, esprimendosi  in francese, aveva spiegato ai tedeschi che il contadino ucciso era una brava persona, magari un po’ sprovveduta, ma senza legami con i ribelli. Loro avevano capito di aver sparato in modo eccessivamente precipitoso uccidendo una persona estranea alla guerra partigiana. Si erano mostrati dispiaciuti e poi si erano messi a tavola con grande appetito, dimostrando di gradire la cucina di mia madre e il vino “clinto”ottenuto con le uve del luogo. In quella circostanza, mi era rimasto impresso un ufficiale che per tagliare la carne utilizzava un pugnale, con la lama  dorata, che teneva infilato negli stivali.

Nel pomeriggio sul nostro terrazzo erano arrivati anche il Parroco Don Milano e alcuni parenti di Angelo per ottenere la fine del piantonamento di tutto il casolare e poter provvedere al recupero della salma.

A seguito di uno scambio di prigionieri l’avvocato Felice Bertolino, fondatore insieme ad altri antifascisti di alcuni gruppi partigiani del cuneese, era stato liberato dal carcere ed era arrivato a Prea. Era stato nostro ospite per un mese sino ad inizio gennaio ’45. Divideva la stanza con Alfredo e durante i rastrellamenti   di quel periodo  si nascondeva con mio nonno nei “Grup” , una zona incolta ed impervia posta a monte del gorgo “Neirun”, dove i ragazzi andavano a fare il bagno d’estate.

Mia madre, con molta prudenza provvedeva a portare loro cibi caldi . Credo sia stata proprio l’ospitalità offerta all’avvocato Bertolino, la ragione per la quale mia madre sia stata inserita nell’elenco dei collaboratori benemeriti del ServizioX diretto da Dino Giacosa e Aldo Sacchetti. Fra le cose di mia madre avevo trovato anche alcune lettere e una poesia che esprimeva la sua gratitudine per l’ospitalità generosa che aveva ricevuto a casa nostra.

Il più spettacolare rastrellamento che coinvolse tutta la Valle Ellero,  era iniziato l’11 dicembre ’44. Probabilmente i tedeschi, col binocolo, avevano visto che sul terrazzo di casa nostra c’erano molti partigiani che osservavano il rastrellamento verso la Tura. Così, da Baracco avevano iniziato a sparare verso l’abitato di Prea. Avevano sparato anche alcuni colpi di mortaio. La gente della borgata era molto spaventata e si era radunata sotto il porticato di fianco alla chiesa. Dicevano che i tedeschi avevano intenzione di distruggere Prea. I nazifascisti sapevano che i partigiani trovavano rifugio nelle case ed erano appoggiati dalla popolazione della frazione e, per rappresaglia, avevano intenzione di “ripulire” la zona. Se non era successo niente e se Prea non aveva fatto la fine di Boves, lo si deve unicamente all’atteggiamento prudente e responsabile dei capi partigiani, in primo luogo Piero Cosa, Gigi Scimè, Aldo Sacchetti e Dino Giacosa. Quando i tedeschi arrivavano, i partigiani salivano in montagna, si riparavano nei “tec”, nei “casòt” o dormivano sulla neve, ma non avevano mai fatto attentati o attacchi ai tedeschi  di gravità tale  da provocare la loro reazione rabbiosa.

I partigiani, quando tenevano un presidio a Prea, collocavano una mitragliatrice nell’ultima curva della strada vecchia, all’altezza della fonte di San Francesco. Allora non c’era una  vegetazione folta  e di lì potevano dominare la vallata sottostante e controllare i movimenti sulla strada di Norea. Diciamo che era un punto di avvistamento privilegiato, vicino ad un pilone “decorato” con scritte di disprezzo nei confronti del Fuhrer. Mia madre, con  me e mio fratello, si recava spesso in quella zona per portare notizie. Con un figlio al seguito, accompagnava sovente anche la levatrice del Comune di Roccaforte  Teresa De Giorgis che teneva i contatti fra le “bande”.

Tedeschi e partigiani, a turno, installavano delle linee telefoniche per comunicare da Prea con i rispettivi punti di appoggio. Quando si spostavano, tagliavano quel filo che passava di ramo in ramo e collegava località distanti alcuni chilometri. L’operazione non sempre riusciva a regola d’arte e, di conseguenza, i fili strappati restavano a penzolare dai rami. A questo punto intervenivamo noi insieme a ragazzi del posto, con tempismo da campioni,  e arraffavamo quel prezioso filo per farne delle ottime fionde utilizzando la guaina isolante in gomma.  Altro “passatempo” dei ragazzi e dei bambini era la raccolta dei proiettili. Li mettevamo nella stufa per fare sciogliere il piombo e costruire fischietti molto apprezzati. Una volta l’avevo fatto anch’io, col risultato di provocare uno scoppio tremendo, capace addirittura di scoperchiare la stufa. Mia madre ricordava spesso di avere avuto un’accesa discussione con Dino Giacosa, per un detenuto di Chiusa Pesio. Prima era stato tenuto prigioniero al rifugio Margherita, poi l’avevano trasferito a Rastello. Il parroco di Beinette aveva mandato a dire a mia madre che quello era stato fascista, ma che era una brava persona. In sostanza, il compito di mia madre era stato quello di parlare con i capi partigiani per evitarne la fucilazione. Giacosa era una brava persona. Aveva sostenuto che era un fascista e pertanto meritava la sentenza di condanna, ma poi aveva ceduto di fronte alle insistenze di mia madre e aveva fatto in modo che il detenuto fosse lasciato libero. I primi ad essere fucilati a Prea erano stati alcuni fascisti che erano stati fatti passare con le mani alzate per le strade del paese ed erano stati abbattuti con una scarica di mitragliatrice nella zona di San Giuseppe. Prima di essere fucilati, erano stati costretti a scavare le loro fosse.

Durante un rastrellamento i tedeschi avevano una dozzina di giovani che furono fucilati davanti al muro del cimitero. Fra questi il carabiniere-partigiano Eugenio Ierardi, originario di Petilia Policastro. Il parroco Don Milano, era venuto a chiamare mio nonno e suo fratello Paolo dicendo loro” A Prea siamo rimasti noi tre, gli altri si sono dati alla fuga, dobbiamo dare sepoltura a quei poveri ragazzi” . Il nonno e lo zio erano andati con una scala a pioli per trasportare le salme e portarono a termine l’ingrato compito. Mia madre ricordava che al loro ritorno “ erano bianchi in viso come lenzuoli”per la grande emozione. Nei giorni seguenti noi bambini giravamo alla larga da quella scala ancora macchiata di sangue.

In altre occasioni Prea aveva rischiato di essere data alle fiamme. Fu quando alcuni militari tedeschi avevano chiesto al Parroco un centinaio di polli, spennati e ripuliti, pronti per andare in pentola. In caso contrario avrebbero bruciato le case di Prea. Il parroco si era recato di casa in casa per chiedere ad ogni famiglia di mettere a disposizione un congruo numero di polli e galline per esaudire la richiesta dei tedeschi. In poche ore il risultato era stato raggiunto. Analoga minaccia era stata fatta dai tedeschi quando, giunti a Prea e sapendo che da poco i partigiani erano fuggiti sulle montagne volevano a tutti i costi conoscere il luogo dove erano state nascoste le armi, le antenne radio e altro materiale utilizzato dai banditi. Di fronte alla minaccia di bruciare le case, l’informazione era stata data, tramite il Parroco.  Ricordo che il mattino successivo dal mio terrazzo avevo visto i militari tedeschi scavare in un giardino e dissotterrare quanto cercavano e in particolare mi era rimasta impressa una lunga antenna radio di  4 o 5 mt. dentro una custodia di legno.

articolo inserito nel libro:

G.BRulfi Roccaforte dalla guerra d’Africa alla Liberazione 2015

Nonna Tina con papà, Ernesto Braun e amici sugli sci

Nonna Tina nei prati della valle Ellero coi tre figli più grandi

 

Nonna Tina (Margherita Calcagno)

 

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